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Tutti i costi di una rinuncia

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Il continuo legiferare su temi di finanza pubblica, alimentato dal tentativo di reagire alla crisi, ha compromesso, per un amministratore locale, la possibilità di fare programmazione finanziaria a supporto delle promesse fatte ai cittadini. Promesse particolarmente pregiudicate dai provvedimenti di questi due anni, tanto che il contributo degli enti locali alla manovra di finanza pubblica nazionale è passato da 17,5 miliardi di euro, del triennio 2009-2011, ai circa 80 miliardi del 2013-1015. Ciò ha costretto gli amministratori locali a continue revisioni dei propri impegni e delle proprie previsioni e il Governo a reiterati rinvii delle scadenze per l’approvazione dei bilanci. Ma a dire il vero la proroga dei termini per l’approvazione del bilancio preventivo è ormai una prassi tanto che, dal 1990 ad oggi, solo nel 1992 tale scadenza è stata confermata. Il fatto che non esista un riferimento temporale è un limite per un documento che formalizza indirizzi e scelte che le amministrazioni faranno, e di cui è la precondizione giuridica. Il bilancio previsionale ha infatti valore autorizzatorio per gli impegni che nel futuro si vogliono assumere, e ha in allegato il piano dei lavori in assenza del quale non si può dar corso agli investimenti; sempre nel bilancio preventivo sono programmate le dismissioni condizione anche questa imprescindibile per dar corso velocemente ad esigenze finanziarie che lo stesso dovesse richiedere. Il perimetro del debito pubblico ha, inoltre, un confine ibrido perché sottoposto all’interpretazione di schemi di finanziamento sempre più sofisticati e alla esigenza di valutare gli impegni indirettamente assunti per il tramite delle partecipate (ne sa qualcosa la giunta di Brescia che ha ereditato la metropolitana); tentando di ovviare a questo il bilancio previsionale prevede che si riportino le risultanze dei rendiconti delle società partecipate. Il bilancio previsionale è inoltre sottoposto al giudizio di congruità di coerenza e di attendibilità da parte degli organi di revisione, oltre che al parere espresso dal responsabile dei servizi finanziari. Tale previsione  tenta di circoscrivere le responsabilità per gli amministratori e, a maggior ragione, rende indispensabile un documento che la prassi e la disciplina consentono in tempi meno certi. In fine in tempi di crisi l’assumere decisioni tempestive e rispettare il cronogramma delle cose da farsi è fondamentale, rinunciare al bilancio preventivo lede questa necessita visto che contiene tutti gli obiettivi dei servizi comunali in termini di efficienza ed e efficacia. Peraltro, in tempi di risparmio forzoso operare con un bilancio provvisorio significa avallare una gestione meno oculata, potendo solo spendere in dodicesimi sulla base della spesa storica al lordo dei tagli e, per di più, non potendo autorizzare spese che hanno carattere di novità. Ecco perché capisco la difficoltà di una amministrazione locale quando subisce queste proroghe meno quando le alimenta come si ipotizza a Brescia.

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Un Comune senza bilancio

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In tempi di scelte difficili e spesso impopolari l’unica strada percorribile per i politici è quella della trasparenza e della partecipazione della collettività alla definizione delle politiche pubbliche.  La sussidiarietà, di cui informazione e coinvolgimento delle persone sono due postulati, è l’unica soluzione per affrontare, sia la crisi politica, sia quella finanziaria. Volendo limitarsi alla crisi finanziaria, organi di controllo e informazione  danno atto della precarietà delle finanze locali, stimando tra i 30 e i 70 miliardi il “buco” di queste amministrazioni. Si tratta di una stima poco precisa perché, molti amministratori pubblici evitano di avviare la procedura  formale di dissesto finanziario ai sensi del Testo Unico degli enti locali (D.lgs. n. 267/2000). Del resto, in assenza del vantaggio che implicava il risanamento a carico dello Stato, abolito dopo la riforma costituzionale del 2001, i politici locali non hanno alcun incentivo a dichiarare il dissesto , a fronte peraltro dei vincoli e delle conseguenze sanzionatorie che per loro implica. In conseguenza  di questa irresponsabilità la lista dei comuni formalmente non in dissesto, ma nei fatti in gravissima crisi finanziaria è lunghissima: Messina, Parma, Reggio Calabria, Napoli, Palermo, Foggia, Catania, Alessandria, ecc. ecc. Quello che si vede e si conosce è solo la punta di un iceberg che coinvolge molti altri enti locali non dimenticando le Regioni, di cui quattro cumulano i due terzi dei 50 miliardi di loro debiti. Gli effetti per i cittadini sono pesantissimi gli unici a non pagare sono i politici tanto che anche la “relazione di fine mandato” prevista nel 2011 dall’ultimo decreto sul federalismo è rimasta lettera morta nelle more della  approvazione da parte del Governo  dello “schema tipo” per la sua redazione. La relazione degli amministratori uscenti accerta per il comune e le partecipate la situazione degli impegni finanziari, delle azioni intraprese per contenere la spesa e rispettare i saldi finanziari, i controlli e i rilievi e altro ancora; tutto ciò a beneficio della collettività in primis e dei nuovi amministratori poi, evitando il balletto delle responsabilità tra chi lascia e chi si insedia, ma soprattutto sanzionando fino alla ineleggibilità politica chi è causa di dissesto. Fortunatamente il Decreto-legge n.174/2012 ha sciolto ogni riserva, stabilendo che la relazione va redatta a prescindere dal fatto che il Governo abbia approvato lo schema- tipo. Così gli amministratori uscenti, come nel caso della nostra città, devono redigerla  non oltre il 90°giorno antecedente la data di scadenza del mandato, trasmettendola alla Corte dei conti e pubblicandola sul sito web del comune. Il decreto peraltro prevede una sanzione pecuniaria per gli amministratori e i tecnici che omettono tale redazione. Finalmente un po’ di chiarezza, trasparenza e responsabilità, così anche i cittadini avranno maggiori elementi per esprimere i loro giudizi e forse si ristabilirà quel principio che ha sempre ispirato il federalismo: “vedo, voto e pago”. Questo tranquillizzerà in parte chi è rimasto amareggiato per la scelta del nostro sindaco che ha comunicato di non voler varare il bilancio previsionale garantendo però una puntuale rappresentazione della situazione finanziaria ai candidati sindaci. In parte perché la relazione di fine mandato non esaurisce né tutti i contenuti né tutte le funzioni di un bilancio previsionale, ma soprattutto in parte perché tale omissione è un vulnus per i cittadini ancor prima che per gli altri  candidati sindaci alle prossime elezioni.

Sviluppo, servono idee più che soldi

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Il Decreto sviluppo 2.0 prevede una serie di misure a favore delle nuove imprese o start up. Non sono mancate in passato simili iniziative, sebbene con scarse risorse e un approccio non sistemico. Gli artt. 25-32 del decreto varato il 4 ottobre sono invece frutto di un lavoro più esaustivo, che declina il sostegno ai neo-imprenditori nelle diverse fasi dell’avventura dell’intraprendere: dall’idea e costituzione fino allo sviluppo della società, non mancando di prevedere reti di sicurezza in caso di insuccesso e liquidazione. Diverse sono anche le leve agevolative modulate: semplificazione, deroghe normative, abbattimento dei costi, defiscalizzazione e incentivi finanziari. Le nuove imprese potranno infatti, tra le tante agevolazioni, godere di un regime civilistico sui generis che, in caso di perdite, permette loro di rinviare la capitalizzazione e che autorizza quote societarie con diritti diversi, esattamente come per una grande Spa. Potranno inoltre pagare fornitori e dipendenti con quote societarie fiscalmente agevolate e fruire del finanziamento di persone o società grazie alla deducibilità fiscale per questo tipo di investimenti. Forse, e non mi stupisce di questi tempi, la parte più debole è proprio la cassa: mancano i canali di finanziamento istituzionale che ovunque fanno da volano tra il “quasi mercato” e il mercato, mentre la provvista di 200 milioni di euro pare ottimistica oltre che di certo non fruibile nell’immediato. Non mancano innovazioni apprezzabili come la creazione di un portale web che raccolga le sottoscrizioni, anche se rischia di distinguersi più per la sua creatività che per i risultati. Nonostante ciò, resta il pregio di un intervento sistemico e di una razionalizzazione della proposta finanziaria con l’impiego efficace delle iniziative del passato. Il problema, comunque, non è solo finanziario. Rispetto all’Italia, ad Oxford non ci sono molti più fondi istituzionali o molte più infrastrutture ospitanti i giovani imprenditori. Semplicemente università, imprese e finanza dialogano con naturalezza come parti indispensabili le une alle altre. Esistono un’organizzazione e un network relazionale in grado di mettere il capitale finanziario e infrastrutturale a disposizione delle migliori idee e di garantire loro relazioni di mercato. Tutto questo è mancato a Brescia, nonostante la costituzione del Centro Servizi Multisettoriale Tecnologico-CSMT grazie alla disponibilità dell’incubatore universitario, realizzato con i contributi della Regione e destinato a ospitare proprio le start up. Il CSMT non è riuscito a rappresentare un’infrastruttura organizzativa e relazionale tra mondo industriale e della ricerca e giovani. Prova ne è che dall’interazione tra industria e università sono nate, in Italia, 804 imprese – spin off universitari – e solo una quota dell’1,1% è rappresentata dalla nostra università, posizionata al 34° posizione della graduatoria nazionale nonostante operi in uno dei comprensori più industrializzati del paese. A conferma di ciò, basti pensare che le candidature bresciane al Fondo Next, gestito dalla finanziaria regionale, non superano il 5%. Nel frattempo il mondo privato è più proattivo si pensi al progetto di Unicredit “Il talento delle idee” o a “Start up Initiative” targato Intesa Sanpaolo e per stare su Brescia all’iniziativa “Futura” della società Copan o Startup Weekend Brescia evento organizzato domenica su iniziativa del network di co-working Talent Garden e volto a selezionare le migliori giovani idee imprenditoriali. Tutto ciò dimostra che prima che le risorse necessitiamo di idee e capacità di fare.

Piano delle città, Brescia si attrezzi

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Nel dl sviluppo approvato questa estate, tra le misure a favore degli investimenti infrastnitturali e dell’edilizia, è stato varato il «piano nazionale per le città»: l’ennesimo rilancio degli investimenti urbani che può rappresentare una occasione per Brescia.
In fondo anche da noi il settore costruzione è piegato dalla crisi, e i numeri nazionali evidenziano una emergenza: si sono persi 250 mila posti di lavoro e il settore, dopo aver bruciato in 6 anni un quarto del mercato, è ai livelli del 1970 con previsioni per l’anno in corso di una ulteriore contrazione degli investimenti del 6%. Ma non si tratta di affrontare la crisi con un po’ di cemento, si tratta di portare a sistema una programmazione coordinata degli investimenti che faccia di sicurezza, ambiente, socialità, bellezza, storia e cultura i cardini di uno sviluppo cittadino.
Che il viceministro Ciaccia abbia preso di buzzo buono il piano è dimostrato dal fatto che, nonostante per le risorse abbia fatto di necessità virtù, recuperandole da capitoli già esistenti, ha già emanato, il 3 agosto, il decreto attuativo che istituisce la cabina di regia che selezionerà i progetti, definendo il suo funzionamento oltre ai termini e alle modalità per la presentazione e l’istruttoria delle domande. Molti comuni hanno solertemente presentato le loro proposte per non perdere questa occasione.
Si tratta di ben 58 istanze progettuali, 10 da comuni capoluogo del nordovest, ma tra queste non sembra esserci Brescia. La stampa
ha dato anticipazioni di molti: Milano, Roma, Firenze, Genova, Bari, Bologna, Napoli, anche Verona con i progetti per l’ex Arsenale
austriaco, del Borgo Nuovo, della Corte Rurale e il recupero degli edifici residenziali pubblici; ma nulla di Brescia! Le domande dovranno
però essere tutte formalmente ripresentate il 5 ottobre dando priorità alla cantierabilità e alla f inanziabilità grazie alla collaborazione con i privati e ciò fa supporre che non potranno essere improvvisate.
Ma a Brescia tutto tace! È l’occasione importante per portare a sistema riflessioni e piani in parte rimasti totalmente inevasi: bonifiche, interventi di edilizia scolastica, housing sociale, beni demaniali, interventi per il dissesto idrogeologico per il risparmio energetico, per il
trasporto urbano 0 per dare corpo a una «smart city» nell’accezione comunitaria.
Ho citato questi aspetti perché tutti oggetto dì piani d’investimento governativi. Ma cosa aspetta Brescia? So che negli uffici del Comune
si parla da tempo di promuovere un fondo per l’housing sociale. In fondo le risorse per questa iniziativa c’erano già nel piano casa di Berlusconi, non a caso 1,6 miliardi di euro dell’attuale piano delle città sono stati recuperati proprio dai fondi non impegnati dal Fia
(Fondo investimenti abitare). Inoltre proprio in Lombardia, promosso dalla Fondazione Cariplo, è nato il primo Fondo per queste politiche. So anche che da tempo si parla della situazione emergenziale di tutto il comparto Milano e sembra proprio che il degrado
di questa zona sì presti alle priorità del piano delle città. Mi auguro che Brescia presenti qualche iniziativa perché i tempi stringono e
le risorse sono poche, ma soprattutto i cittadini aspettano risposte.

Spending review. Effetti bresciani

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Il decreto sulla spending review è legge. Le risorse provenienti dai tagli, invece di garantire un abbattimento del prelievo fiscale o del debito pubblico come sperato, si limitano, nella misura di circa 4 miliardi quest’anno e io nei prossimi, a rinviare l’incremento dell’Iva di 8 mesi e a finanziare una pluralità di altre spese, tanto che sembra che si legga una finanziaria piuttosto che un intervento di riduzione della spesa.
Così, anziché cogliere l’occasione per ridurre aree e settori di intervento della Pubblica amministrazione tagliandone i costi interni, si è
preferito tagliarne quelli esterni con misure lesive dei diritti degli operatori privati. Si prevede infatti che i contratti di affitto passivo per la Pubblica amministrazione non siano aggiornati alle variazioni degli indici Istat come sancito dalla normativa vigente o che siano ridotti del 15% a prescindere dagli accordi contrattualizzati 0, ancora, che la Pubblica amministrazione possa recedere entro il 31 dicembre di quest’anno in deroga ai termini di preavviso contrattuali.
Tutti risparmi per la Pubblica amministrazione, ma a spese dell’affittuario privato. Non mi sembra poi corretto che una Pubblica amministrazione possa unilateralmente recedere da un contratto di fornitura 0 di servizi semplicemente con un preavviso di 15 giorni, né mi sembra che importi che prestazioni di contratti di beni e servizi stipulati da enti e aziende del servizio sanitario nazionale siano automaticamente ridotti del 5%.
Che dire poi dell’aggravio a carico delle farmacie e dell’industria farmaceutica e della discriminazione degli ospedali privati? Perché tanta facilità nel prescindere dai diritti dei privati, mentre per la difesa del pubblico si schiera tutta la capacità d’interdizione parlamentare?
A livello nazionale si salvano società ed enti e a livello locale, grazie al maxi-emendamento, si prevede una deroga alla cessione 0 liquidazione delle finanziarie regionali, delle società legate a Expo 2015 e, soprattutto, di tutte le società per le quali le caratteristiche economiche, sociali, ambientali e morfologiche del territorio di riferimento lo giustifichino.
È ridicolo e renderà giustificabile per Comuni come Brescia, al di là delle nonne, detenere partecipazioni in molte società non tutte con performance eccellenti, che comunque potrebbero essere ben gestite dai privati. Sul fronte occupazionale, la relazione di accompagnamento del decreto non prevede risparmi connessi al taglio degli organici del personale.
Ciò dice molto su tempi e modalità che caratterizzeranno la ridefinizione delle piante organiche. Anche i Comuni dovranno tagliare con modulazioni che caricheranno il peso di tale ridimensionamento sui Comuni fuori media. Cosa farà Brescia che risulta avere un organico fuori dalla media nazionale? Non sarebbe forse opportuno, di fronte alle esigenze organizzative, promuovere una grande alleanza con i Comuni limitrofi per l’esercizio di funzioni associate ai sensi dell’articolo 19 della stessa spending review? Organizzare unitariamente i servizi permetterebbe una riduzione degli organici e, soprattutto, confermerebbe un’interpretazione della spending review con uno slogan che dovrebbe essere caro ad ogni sindaco e al nostro in particolare: «più società e meno Stato».

Avanti con i tagli, ma che non siano tagli lineari

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Per tassare i cittadini e le imprese il momento è sempre buono, per tagliare le spese dell’apparato pubblico mai! Lo dimostra Eutekne che, elaborando il Dpef del 2012, evidenzia quanto lo sforzo di riequilibrio dei conti pubblici gravi perii 79,42% sui cittadini contribuenti (aumento della pressione fiscale e riduzione delle prestazioni pensionistiche) e solo per la parte residua sulla pubblica amministrazione, per lo più quella territoriale (19,88% sulle regioni e gli enti locali e 0,7% sull’apparato centrale dello Stato).
Per difendere la reticenza a tagliare la spesa pubblica, si paventano naturalmente i tagli dei servizi al cittadino e l’impatto sociale dello snellimento degli organici pubblici. Concordo sul fatto che non si possano tagliare i servizi al cittadino, soprattutto quando si è chiesto loro maggiori sacrifici.
La revisione della spesa ha due declinazioni, una quantitativa, cioè i tagli, e una qualitativa, cioè efficienza nell’impiego delle risorse, che vuol dire minore spesa a parità di risultati. Quindi tagliare le risorse non postula necessariamente diminuire i servizi. Tre esempi per dimostrarlo: dal Rapporto 2012 di Confartigianato risulta che il costo pro-capite dei dipendenti regionali in Lombardia è di 23 euro mentre in
Sicilia di 346; questo, semplificando, vuol dire che se l’amministrazione siciliana operasse con gli standard della Lombardia risparmierebbe più di 1,6 miliardi di euro l’anno.
Inoltre, parlando di sanità, un contributo dell’economista Fabio Pammolli nel primo Raporto sulla finanza pubblica della Fondazione Rosselli evidenzia che la divergenza di inefficienze nella gestione del servizio sanitario è misurata in 12 miliardi di euro, l’equivalente dello 0,79% del Pil, e per lo più originata da quattro regioni (Campania 3,5 miliardi, Sicilia 2,1 miliardi, Puglia 1,7 miliardi e Lazio 1,4 miliardi), dove si concentrali 73% delle risorse complessivamente liberabili. Infine Unioncamere Veneto, facendo i conti sulla spesa media in un quinquennio (2003-2007) relativamente a consumi intermedi, numero dei dipendenti pubblici e costo del lavoro per ogni dipendente pubblico, ha calcolato il risparmio che si avrebbe se si applicassero a tutte le regioni gli standard del Veneto e del modello tedesco: i risparmi sarebbero intorno ai 27,8 miliardi nel primo caso e fino a 49,4 miliardi nel secondo. Questi esempi dicono che se si taglia, non usando tagli lineari ma utilizzando gli standard, i costi convenzionali equivalenti a quelli di amministrazione maggiormente efficienti si possono ridurre di molto le spese, operando su inefficienze e relative diseconomie e non sulla riduzione dei servizi. Va però detto che i costi standard erano architrave del federalismo che sembra sbrigativamente archiviato o rubricato come una battaglia della Lega ormai démodée.
Per quanto riguarda i dipendenti pubblici va ricordato che i redditi da lavoro dipendente rappresentano ben il 56,6% delle spese per consumi finali nella Pa, circa 2.850 euro per ogni cittadino. È, quindi, naturale che nell’economia di altri Paesi abbiano pianificato anche quelle relative ai posti di lavoro pubblici tanto che dal rapporto presentato al Senato sulla spending review si evidenzia come il Cancelliere Osbome il 20 ottobre abbia previsto risparmi per 80 miliardi di sterline, compresa l’eliminazione di 710mila posti di lavoro nel settore pubblico per crearne in un quinquennio 1,7 milioni nel privato. Va poi ricordato che la spesa complessiva del personale della Pa è cresciuta a un tasso superiore di quella privata di quasi un 1% sul Pil. A far difetto tuttavia non è solo la componente di costo pubblico paragonata con quella privata, poiché anche nel paragone intemazionale risultiamo deficitari. La Commissione europea nell’European economie forecast – spring 2012 calcola, infatti, che tra il 2000 e il 2011 la spesa per dipendenti pubblici in Italia è salita di 0,4 punti del Pil, mentre in Germania è diminuita di 0,5 punti, Paese quest’ultimo che ha fatto i propri «compiti a casa» anzitempo negli anni pre crisi, mentre gli interventi italiani di contenimento sono ascrivibili solo al periodo 2009-2011.
La sintesi è che in Italia tra il 1995 e il 2010 la spesa pubblica per i dipendenti è salita dell’82,1%, a fronte di una dinamica del 63,3% nell’Euro area e di un più contenuto 14,6% in Germania. Le evidenze quantitative ci dicono che non si possono dare lezioni se non si taglierà la spesa pubblica e più dei 26 miliardi in tre anni annunciati, che sono poco più del 1% della spesa totale all’anno, cifra insufficiente e inadeguata se consideriamo che le imprese, come i cittadini, sui loro consumi stanno operando tagli draconiani a doppi decimali.
È altrettanto evidente che non si potrà non operare una riduzione delle piante organiche pubbliche, usando tutti gli istituti e le tutele che si stanno ampiamente utilizzando anche nel privato, considerata la loro incidenza sul totale della spesa. L’importante è che si usino, in un caso come nell’altro, criteri meritocratici e i cosiddetti standard. Così facendo non si taglieranno servizi, ma soprattutto si motiverebbe la spending review come un politica di giustizia sociale ed economica e non solo come una misura per evitare l’incremento dell’Iva.

Se l’ente pubblico tarda a pagare

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I crediti delle imprese italiane verso la pubblica amministrazione, stimati in oltre 70 miliardi di euro, le hanno trasformate in banche del sistema
pubblico, Un’anomalia alimentata da tutti i governi a partire dal 1998 con il Patto di stabilità. Quest’ultimo, infatti, considerando debito solo quello finanziario con le banche e non quello commerciale con le imprese, ha spinto la pubblica amministrazione a far cassa presso il sistema imprenditoriale.
Sebbene il ministro Passera per la risoluzione del problema abbia promosso quattro decreti, il dover operare a risorse finanziarie invariate sembra produrre «più fumo che arrosto».
La novità principale è rappresentata dalla certificazione dei crediti da parte della pubblica amministrazione,
presupposto per il loro smobilizzo finanziario, finalmente obbligatoria, Ma ciò non aggiunge molto a quanto le amministrazioni rispettose già potevano fare autonomamente: il Comune di Brescia, ad esempio, ha certificato i propri impegni e selezionato alcune banche per anticipare, con un’operazione ai factoring, i 25 milioni di euro di crediti che nel 20.10 le imprese vantavano nei suoi confronti. I decreti governativi, inoltre, a differenza di quanto è avvenuto a Brescia dove con la certificazione si è fissata la scadenza entro cui il Comune avrebbe pagato (10 gennaio 2011), hanno previsto la possibilità di scegliere se indicare la data per il pagamento 0 non farlo (per le spese in conto capitale). Tale facoltà, apparentemente insensata, nasconde in realtà un problema non banale, perché nessuna amministrazione potrebbe indicare una data senza una preventiva autorizzazione a derogare ai vincoli del Patto.
Il risultato è che le imprese si finanzieranno e, se poi i Comuni non dovessero saldare le banche per l’anticipazione alle imprese, queste dovranno restituire l’anticipo, avendo pure rinunciato ad alcune tutele. Infatti, per la cessione del credito le imprese devono rinunciare preventivamente a qualunque azione volta a farsi riconoscere in tribunale un titolo esecutivo per escutere il credito. Brescia non ha avuto questi problemi perché nel 2011, grazie a quanto incassato dalla cessione della quota in Autostrada Serenissima, ha potuto regolarmente liquidare i propri debiti, compresi i 5,8 dei 25 milioni di euro che le imprese avevano accettato di farsi anticipare. Se
non è risolutiva l’anticipazione finanziaria prevista da uno dei decreti, non sembra altrettanto risolutiva l’altra novità relativa alla compensazione per le imprese tra debiti fiscali, contributivi e assicurativi e crediti con la pubblica amministrazione. Va precisato che non è prevista la possibilità di compensare i crediti con tutti i debiti a titolo d’imposta 0 contributo, ma solo con quelli iscritti a molo. Limite che implica la compensazione di un credito con la pubblica amministrazione solo con le cartelle di un contenzioso tributario.
Le imprese che regolarmente pagano i loro impegni col Fisco non potranno dedurre i crediti dai versamenti delle imposte 0 dei contributi. A beneficiare della compensazione sarà solo chi non ha pagato le imposte in passato e chi ha ricevuto una cartella con evidenza delle imposte iscritte a molo entro il 30 aprile 2012. Nel frattempo, stante il Patto, a prescindere dalla liquidità disponibile, gli enti che possono venderanno i gioielli di famiglia.

Il pagamento dei debiti degli enti locali. Trappola per le imprese

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La stampa ha dato ampia eco alla recente iniziativa del Governo che con quattro decreti intende risolvere il problema dei debiti insoluti della
Pa nei confronti delle imprese. Pur dando atto alla buona volontà del ministro Passera occorre tuttavia chiarire alcuni aspetti tecnici della soluzione proposta per comprenderne la reale portata.
La novità principale è rappresentata dal’obbligo di certificazione dei crediti da parte della Pa, presupposto per il loro smobilizzo finanziario. La
Pa, nel certificare il credito, ha la possibilità di scegliere se indicare la data per il pagamento o non indicarla (per le spese in conto capitale). Tale facoltà nasconde un problema non banale, perché nessuna amministrazione potrebbe indicare ima data senza una preventiva autorizzazione a derogare ai vincoli del Patto di Stabilità. Autorizzazione già esclusa apriori. Quindi, con certificazione e accordo Abi, almeno per un anno, le imprese si finanzieranno anche se a loro spese e per inadempienze altrui e soprattutto con la rinuncia a qualunque azione volta a farsi riconoscere in tribunale un titolo esecutivo per escutere il credito.
Passati i 12 mesi, mi domando cosa succederà se il Mef non dovesse autorizzare tutte le amministrazioni territoriali a derogare al Patto. Le imprese dovranno restituire l’anticipo alle banche e saremo punto a capo, avendo pure rinunciato ad alcune tutele. Vista la situazione della finanza locale
e gli aggravi di questi ultimi anni, non è difficile prevedere che si stia solo prendendo tempo e che in futuro non si prefigurino maggiori margini di manovra di oggi, dato che si dovranno gestire anche gli impegni delfiscal compact. Ma oltre a temporeggiare, quando tra un anno le imprese dovranno restituire l’anticipo, il problema verrà politicamente scaricato sugli enti locali, visto che la maggior parte del debito riguarda la sanità regionale e i Comuni. Va poi sottolineato che sono esclusi dal’obbligo di certificazione gli enti locali commissariati e le Regioni sottoposte ai piani di rientro. Così facendo, sarebbero premiate le Regioni che hanno governato meno efficacemente i loro bilanci e che perpetuerebbero la loro inadempienza.
Per quanto riguarda la compensazione dei crediti delle imprese con i debiti fiscali, contributivi e assicurativi, va precisato che non è prevista la possibilità di compensare i crediti con tutti i debiti a titolo d’imposta o contributo, ma solo con quelli iscritti a ruolo. Premesso che ciò era già previsto all’art. 31 del D.L. n. 78/2010, tale limite implica che si possa compensare un credito con la Pa solo con le cartelle di un contenzioso tributario. Le imprese che regolarmente pagano i loro impegni con il fisco, non potranno dedurre i loro crediti con la Pa dai versamenti delle imposte o dei contributi che ordinariamente maturano. A beneficiare della compensazione sarà solo chi non ha pagato le imposte in passato. Ciò rende evidente che l’applauso mediatico ai pagamenti della Pa sia forse esagerato rispetto al risultato effettivo.

La fine del federalismo e il via a nuove tasse

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Il 20 aprile scorso con l’approvazione della legge costituzionale 1/2012 a Palazzo Madama è stata varata la riforma che impone il pareggio di bilancio, con cui si è tracciata la strada senza ritorno della tassazione a oltranza e si è definitivamente invertita la rotta del federalismo. È scioccante come, sull’onda della demagogia del rigore, sia stata inaugurata in totale sordina una riforma devastante che porterà a più tasse per cittadini e imprese e a espropri istituzionali a discapito degli enti territoriali.
Il pareggio di bilancio, o meglio, com’è stato nomiate, l’equilibrio di bilancio – nella differenza si nasconde la classica furberia italiana – si
può infatti raggiungere aumentando le entrate da prelievo fiscale o riducendo la spesa pubblica: è chiaro che tra le due gli amministratori preferiranno la prima, cioè tassare e tassare sempre di più. Incrementando l’imposizione fiscale, infatti si prendono due piccioni con una fava: si garantiscono sia i mercati finanziari, sia il potere politico e la sua corte di burocrati di Stato, che possono così perpetuare la propria influenza grazie all’intermediazione di denaro pubblico.
Pur condividendo l’intervento volto a evitare sforamenti di bilancio e incremento del debito pubblico, che altro non è che una tassa postergata, andrebbe però anche difeso il diritto del contribuente a premettere il proprio sostentamento e quello del proprio nucleo familiare al prelievo fiscale. Mi riferisco a quanto attuato in Germania con il Familienexistenzminimum elaborato dalla Corte di Karlsruhe e riportato in alcuni suoi scritti dal professore Luca Antonini, presidente della Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale (Copaff). Con tale intervento la corte tedesca ha imposto al legislatore una tax expenditure generalizzata, l’obbligo cioè di esentare dall’imposizione quanto è necessario al mantenimento della famiglia, affermando che il reddito deve essere tutelato quale strumento per la libertà personale. Il combinato disposto dei due vincoli costituzionali, al debito e alla tassazione, in caso di squilibrio di bilancio obbligherebbe, in Germania e
diversamente da quanto accade e accadrà in Italia, a ridurre la spesa pubblica e a tassare solo entro certi limiti.
Con la riforma varata che modifica, oltre all’articolo 81, anche gli articoli 97 e 119 della nostra Costituzione, si smontano, inoltre, in un sol colpo il federalismo e l’autonomia finanziaria degli enti territoriali.
Con il novellato articolo 97 anche le pubbliche amministrazioni sono costituzionalmente obbligate ad assicurare l’equilibrio dei loro bilanci e la sostenibilità del debito pubblico. E fin qui nulla da eccepire, se non che agli enti locali non sono concesse le flessibilità concesse allo Stato in caso di recessione, crisi e calamità naturali. Il problema non è tanto l’obbligo nomiate, quanto le garanzie per conseguirlo.
La modifica dell’artìcolo 119 subordina l’autonomia finanziaria e di spesa dei comuni e abilita in legge finanziaria il governo a definire, tra le altre cose, «le modalità attraverso le quali i comuni, le province, le città metropolitane, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano concorrono alla sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni». Se in passato era ritenuto legittimo imporre agli enti territoriali obiettivi di bilancio, non lo era dispome il come, tanto che molte delle norme che vincolavano specifici tagli di spesa, sono state oggetto di ricorso costituzionale.
Il risultato è che gli enti territoriali subiranno il fatto che lo Stato centrale disponga in dettaglio dove tagliare e come organizzare le proprie amministrazioni. Basterà una norma per tagliare la garanzia di tutele socio – assistenziali, servizi pubblici locali, interventi urbanistici, etc. Diventa dunque chiaro come Bondi “mani di forbice” sarà abilitato a muoversi anche su regioni ed enti locali con i tanto vituperati tagli lineari, visto che dopo i reiterati ritardi nella definizione dei costi standard e dei livelli essenziali di prestazioni non potrà operare diversamente.
Forse è un’interpretazione maliziosa che lascio dipanare ai costituzionalisti, ma, come si dice, due indizi rischiano di fare una prova. La stessa modifica dell’articolo 119 dispone che “I comuni, le province, le città metropolitane e le regioni possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento con la contestuale definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti
di ciascuna regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio». Ciò vuol forse dire che se un comune virtuoso grazie al rispetto degli equilibri di bilancio realizza investimenti non lo può fare se se altri comuni dissennati non li hanno rispettati? Dove abbiamo buttato l’autonomia finanziaria del federalismo e dove la tanto agognata meritocrazia?

Welfare locale. Il peso dei tagli

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Dopo l’era della pressione fiscale, inizia quella del taglio dei servizi al cittadino. Dopo il drenaggio impositivo, la crescita dei prezzi e la contrazione del potere di acquisto, la disoccupazione e la stretta creditizia, i cittadini dovranno assistere all’erosione dei servizi pubblici, Il welfare locale, per esempio, è al collasso; intendo quello afferente gli anziani non autosufficienti, i disabili fisici e psichici, i bambini e
le persone in gravi condizioni sociali ed economiche. Sul welfare locale pesano i tagli delle fonti di finanziamento statale, passate da 2,1 miliardi del 2008 a 0,55 miliardi di euro del 2011 (-7496), con totale azzeramento di alcuni fondi (politiche giovanili, inclusione immigrati, pari
opportunità), la riduzione del Fondo per le politiche sociali, passato da 930 a 43 milioni di euro, e di quello per la non autosufficienza praticamente azzerato. Si aggiunga che, come evidenziato dal Forum del terzo settore, la spesa sociale è per il 7096 finanziata con risorse dei bilanci comunali e la partecipazione alla manovra finanziaria richiesta agli enti locali lascia ben pochi spazi oggi e ancor meno per il futuro.
Come se non bastasse, sulle politiche sociali gravano anche i due provvedimenti estivi del 2011 (leggi 111 e 148), che minacciavano un taglio lineare di 40 miliardi per gli anni 2013 e 2014 dei regimi di agevolazione fiscale. Per evitare i tagli lineari si dovevano razionalizzare tali agevolazioni ma comunque garantendo lo stesso risparmio: insomma si può derogare sul «modo» ma non sul «quantum». Il governo Monti, con
la manovra «salva Italia», ha alleggerito l’aut aut prevedendo che, in assenza di un riordino, si alzino le aliquote Iva dell’i* a decorrere dall’ 1 ottobre 2012 e di un ulteriore 0,59-6 a gennaio dei 2014. Brescia non è da meno: i dati della programmazione finanziaria dell’ambito sociale distrettuale evidenziano per il 2012 una contrazione del 40% delle risorse che passano da 2,1 a 1,2 milioni di euro e, oltre a tagli, la sospensione 0 l’annullamento di buoni e voucher per anziani, dei progetti di prevenzione del disagio giovanile, di quelli afferenti l’immigrazion e e la
disabilità grave.
Dovremmo riflettere e prendere atto del fallimento di una pretesa capacità del sistema pubblico di affrontare tutti i bisogni della persona, una velleità con cui negli anni si è acquisito il consenso dei cittadini, illudendoli che il modello fosse efficiente e sostenibile. E tutto ciò
facendo torto a quanto la società civile ha saputo costruire. Proprio nella nostra città c’è ima ricchissima tradizione. À chi volesse farsene
un’idea consiglio di leggere «Far bene e fare il bene. Interpretazioni e materiali per una storia del welfare lombardo» a cura di Alessandro
Colombo, che dimostra come comunità religiose e laiche delle nostre terre abbiano risposto ai bisogni della collettività prima del welfare pubblico. Questa è sussidiarietà, una storia non solo di efficienza, ma anche di umanità. Quindi non si cerchino scorciatoie per una riforma che dovrebbe valorizzare i corpi intermedi delia nostra società, il terzo settore e tutto il volontariato, ma soprattutto non si replichi lo sbaglio culturale di rivendicare maggior intervento pubblico.
Certo si deve risparmiare, basta che si tagli dove si deve e non sulle persone più disagiate.