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Un Welfare da rifondare
Corriere della Sera ed. Brescia (18 Marzo 2014)
Le politiche per il welfare sociale, quelle cioè che comprendono l’insieme dei settori socio-sanitario, socio-assistenziale e socio-educativo risultano da tempo insostenibili ed inadeguate.
Questo è quanto emerso da due confronti che si sono chiusi la scorsa settimana, uno presso la Congrega della Carità Apostolica, con la presentazione del Rapporto 2013 sulla povertà della Fondazione Zancan e l’altro organizzato dalla Fondazione San Benedetto che ha affrontato il tema del finanziamento privato per il mondo sociale.
Che il tutto non regga, a prescindere dalla crisi, è evidente: gli ultrasessantenni sono passati dal 3% degli anni ‘90 al 6% del 2010 e arriveranno ad essere il 7% nel 2020 (circa 4,5 milioni di persone), mentre già oggi, in Italia, la quota di anziani assistiti in strutture residenziali è del 2%, contro Belgio al 8,1%, Svezia al 7,5%, la Francia al 6.3 e l’Inghilterra al 5,1%, così che risultiamo meglio solo della Grecia.
Il tutto è aggravato da un contesto che vede famiglie sempre più piccole, che faticano a far scattare il tradizionale sistema di “welfare familiare”, un’imposizione (sia tributaria che tariffaria) significativamente aumentata e che ha perso ogni parvenza di progressività con grave penalizzazione dei cittadini più poveri e meno fondi pubblici.
Un welfare non solo insostenibile ma anche mal gestito. Del resto che nel nostro Paese queste politiche siano inefficienti è dimostrato dal fatto che l’abbattimento del rischio di povertà che producono è quantificabile nell’ordine del 20% contro il 70% di Paesi come la Svezia.
E’ necessaria una rivoluzione sussidiaria, che ridia il protagonismo alla società civile capace, come risulta dal recentissimo Rapporto 2014 della Fondazione per la Sussidiarietà, di produrre attraverso il settore non-profit servizi del welfare più economici di quelli pubblici.
Ma non è solo un problema di ridefinizione significativa del perimetro dell’agire pubblico, è anche un problema di ridefinizione del suo ruolo e delle sue competenze.
La Pubblica Amministrazione non può più avere il monopolio decisionale sugli interventi, deve agire invece da regolatore intelligente, guidando sistemi decisionali complessi in cui operatori, e soprattutto cittadini-utenti, sappiano (e debbano) giocare la loro parte: il pubblico deve passare da erogatore dei servizi (diretto od indiretto) ad abilitatore, da programmatore dei servizi a controllore e valutatore, da finanziatore esclusivo e condizionante a moltiplicatore delle risorse private secondo logiche di meritocrazia.
Per contenere la sudditanza finanziaria del welfare del pubblico bisogna mobilitare la capacità privata di garantire risorse a diverso titolo, quelle di tutti quegli operatori riconosciuti come “secondo welfare”. La finanza privata deve giocare la propria partita, mentre oggi è chiamata a “mettere una toppa” dove fallisce il pubblico invece di avere un intervento dello Stato dove la società civile non ce la fa, strutturando così di fatto una sussidiarietà al contrario.
Questi cambiamenti rappresentano la sfida! Ma dobbiamo essere consapevoli che togliere il monopolio della gestione al pubblico significa anche togliergli l’esclusiva della responsabilità.
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