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Finanza&Mercati (12 luglio 2012)
Avanti con i tagli, ma che non siano tagli lineari
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Per tassare i cittadini e le imprese il momento è sempre buono, per tagliare le spese dell’apparato pubblico mai! Lo dimostra Eutekne che, elaborando il Dpef del 2012, evidenzia quanto lo sforzo di riequilibrio dei conti pubblici gravi perii 79,42% sui cittadini contribuenti (aumento della pressione fiscale e riduzione delle prestazioni pensionistiche) e solo per la parte residua sulla pubblica amministrazione, per lo più quella territoriale (19,88% sulle regioni e gli enti locali e 0,7% sull’apparato centrale dello Stato).
Per difendere la reticenza a tagliare la spesa pubblica, si paventano naturalmente i tagli dei servizi al cittadino e l’impatto sociale dello snellimento degli organici pubblici. Concordo sul fatto che non si possano tagliare i servizi al cittadino, soprattutto quando si è chiesto loro maggiori sacrifici.
La revisione della spesa ha due declinazioni, una quantitativa, cioè i tagli, e una qualitativa, cioè efficienza nell’impiego delle risorse, che vuol dire minore spesa a parità di risultati. Quindi tagliare le risorse non postula necessariamente diminuire i servizi. Tre esempi per dimostrarlo: dal Rapporto 2012 di Confartigianato risulta che il costo pro-capite dei dipendenti regionali in Lombardia è di 23 euro mentre in
Sicilia di 346; questo, semplificando, vuol dire che se l’amministrazione siciliana operasse con gli standard della Lombardia risparmierebbe più di 1,6 miliardi di euro l’anno.
Inoltre, parlando di sanità, un contributo dell’economista Fabio Pammolli nel primo Raporto sulla finanza pubblica della Fondazione Rosselli evidenzia che la divergenza di inefficienze nella gestione del servizio sanitario è misurata in 12 miliardi di euro, l’equivalente dello 0,79% del Pil, e per lo più originata da quattro regioni (Campania 3,5 miliardi, Sicilia 2,1 miliardi, Puglia 1,7 miliardi e Lazio 1,4 miliardi), dove si concentrali 73% delle risorse complessivamente liberabili. Infine Unioncamere Veneto, facendo i conti sulla spesa media in un quinquennio (2003-2007) relativamente a consumi intermedi, numero dei dipendenti pubblici e costo del lavoro per ogni dipendente pubblico, ha calcolato il risparmio che si avrebbe se si applicassero a tutte le regioni gli standard del Veneto e del modello tedesco: i risparmi sarebbero intorno ai 27,8 miliardi nel primo caso e fino a 49,4 miliardi nel secondo. Questi esempi dicono che se si taglia, non usando tagli lineari ma utilizzando gli standard, i costi convenzionali equivalenti a quelli di amministrazione maggiormente efficienti si possono ridurre di molto le spese, operando su inefficienze e relative diseconomie e non sulla riduzione dei servizi. Va però detto che i costi standard erano architrave del federalismo che sembra sbrigativamente archiviato o rubricato come una battaglia della Lega ormai démodée.
Per quanto riguarda i dipendenti pubblici va ricordato che i redditi da lavoro dipendente rappresentano ben il 56,6% delle spese per consumi finali nella Pa, circa 2.850 euro per ogni cittadino. È, quindi, naturale che nell’economia di altri Paesi abbiano pianificato anche quelle relative ai posti di lavoro pubblici tanto che dal rapporto presentato al Senato sulla spending review si evidenzia come il Cancelliere Osbome il 20 ottobre abbia previsto risparmi per 80 miliardi di sterline, compresa l’eliminazione di 710mila posti di lavoro nel settore pubblico per crearne in un quinquennio 1,7 milioni nel privato. Va poi ricordato che la spesa complessiva del personale della Pa è cresciuta a un tasso superiore di quella privata di quasi un 1% sul Pil. A far difetto tuttavia non è solo la componente di costo pubblico paragonata con quella privata, poiché anche nel paragone intemazionale risultiamo deficitari. La Commissione europea nell’European economie forecast – spring 2012 calcola, infatti, che tra il 2000 e il 2011 la spesa per dipendenti pubblici in Italia è salita di 0,4 punti del Pil, mentre in Germania è diminuita di 0,5 punti, Paese quest’ultimo che ha fatto i propri «compiti a casa» anzitempo negli anni pre crisi, mentre gli interventi italiani di contenimento sono ascrivibili solo al periodo 2009-2011.
La sintesi è che in Italia tra il 1995 e il 2010 la spesa pubblica per i dipendenti è salita dell’82,1%, a fronte di una dinamica del 63,3% nell’Euro area e di un più contenuto 14,6% in Germania. Le evidenze quantitative ci dicono che non si possono dare lezioni se non si taglierà la spesa pubblica e più dei 26 miliardi in tre anni annunciati, che sono poco più del 1% della spesa totale all’anno, cifra insufficiente e inadeguata se consideriamo che le imprese, come i cittadini, sui loro consumi stanno operando tagli draconiani a doppi decimali.
È altrettanto evidente che non si potrà non operare una riduzione delle piante organiche pubbliche, usando tutti gli istituti e le tutele che si stanno ampiamente utilizzando anche nel privato, considerata la loro incidenza sul totale della spesa. L’importante è che si usino, in un caso come nell’altro, criteri meritocratici e i cosiddetti standard. Così facendo non si taglieranno servizi, ma soprattutto si motiverebbe la spending review come un politica di giustizia sociale ed economica e non solo come una misura per evitare l’incremento dell’Iva.